Il "rumore": quando comunicare stressa

L'esperienza quotidiana mette a dura prova la voglia di comunicare.
Non è questione di poca volontà, ma piuttosto di "rumore".
Cosa significa? Sai che si fa, te lo racconto al bar.



Sono cresciuta a pane e parole.
Sono cresciuta balbettando suoni confusi ancor prima d'imparare a camminare.
Fino a una certa età pensavo fosse una cosa eccezionale. E in parte, forse, lo è.

Poi ho scoperto che, dieci anni prima della mia nascita, tre individui dai nomi impronunciabili - Paul Watzlavick, Janet B. Bavelas, Don D. Jackson - hanno pubblicato il manuale "Pragmatics of Human Communication", pietra miliare della psicologia mondiale che mette la comunicazione al centro del processo relazionale.
Si parte dal presupposto che in presenza di altri individui "non si possa fare a meno di comunicare". L'affermazione con doppia negazione stressa, ma tu leggi lo stesso che intanto ti passa:


"Il comportamento non ha un opposto. In altre parole non esiste il non-comportamento o, per dirla più semplicemente, non è possibile non avere un comportamento. Ora se si accetta che l'intero comportamento in una situazione d'interazione ha valore di comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi non si può non comunicare. L'attività o l'inattività, le parole o il silenzio hanno tutti valore di messaggio: influenzano gli altri e gli altri, a loro volta, non possono che rispondere a questi stimoli". 


Qui scatta il famoso detto "il silenzio vale più di mille parole": afonia, gesto, cenno si riempiono di significato. Tutto parla: sempre. La comunicazione è l'attività che occupa più tempo nella vita umana, dopo la respirazione. Quest'è: bisogna farsene una ragione.

Pepepepepeeee pepepepepeeeeee pepepepepe pe pe.

Contento eh...
Be', io non farei salti di gioia: esiste una cosa che mette a dura prova il naturale fluire della parola.
Si chiama "rumore" e no, non è il rumors anglossassone - anche se, lo ammetto, può essere più fastidioso d'un pettegolezzo. Se ti va di sapere cos'è, te lo spiego al bar davanti al caffè.


Metti un giorno al bar...

Da quando costa due euro, la colazione al bar non è cosa per me; ma, sai com'è, ci sono giorni in cui ti vuoi coccolare con la schiumetta mondiale sul caffè e - magari - instagrammare questo momento bestiale (nel senso di the best). Sì, perché - ormai è ufficiale - sul web il cappuccino fa concorrenza al gattino.

Oggi è uno di quei giorni.
A giudicare dalla massa di motori parcheggiati fuori, il primo pensiero è un (pro)verbale "rinunciare": la mattina non ho granché voglia di parlare; ma ho fame, quindi entro e affronto con pazienza l'ammasso infernale. Voglio schematizzare la situazione in termini di pura comunicazione:


  • emittente: io
  • messaggio: vorrei un caffèèèèèèè, grazie
  • canale: l'aria
  • destinatario: barista super-affannato
  • codici in successione: lingua italiana, dialetto veneto, mano in aria, cenno con la testa, urlo 
  • contesto: tripla fila, a due passi dalla porta, seconda posizione a destra
  • feedback: non pervenuto in termini di reazione, risposta, retro-azione.


Su tutto aleggia un rumore assordante che impedisce la ricezione del messaggio e, diciamolo, infastidisce l'emittente: bocche aperte, mascelle serrate, sbuffi alitanti, voci squillanti.
Il ponte è interrotto. Il flusso disturbato. Il feedback azzerato.



Fatto l'esempio, direi che quest'è la definizione di "rumore" in comunicazione: qualsiasi cosa disturbi il canale, interrompendo la ricezione del messaggio e, quindi, la reazione del ricevente.
Lo scambio va a buon fine quando il rumore è azzerato: chi abbiamo di fronte capisce in modo chiaro quello che diciamo, reagisce di conseguenza e dà seguito al processo comunicativo.
Il "rumore" è un'esperienza quotidiana che tutti facciamo:


  • musica troppo alta 
  • suono dell'ambulanza
  • petardi e fuochi d'artificio 
  • discussione con gara a chi urla di più
  • interruzione della linea sul telefonino 
  • crollo della connessione sul PC 
  • uso di mezzi diversi per comunicare (anche in digitale)
  • flusso d'informazioni difficile da catalogare (soprattutto in digitale)
  • discoteca con esasperato BUM, BUM, BUM
  • traffico con esagerato BRUM, BRUM, BRUM


Si tratta dell'unico momento in cui la volontà di comunicare non basta: alle volte è casuale, altre servirebbe una buona dose di educazione. Vero è ch'esiste anche il contrario: hai presente quando c'è gente che ti parla piano, piano, piano... e a te tocca tendere l'unico orecchio sano per capire quello che dice? Be', ti sembrerà strano, ma pure quello si chiama "rumore": qualsiasi cosa interrompa il canale, impedendo la ricezione del messaggio, e che possa variare in base al canale stesso.
Qui potrebbe scattare il secondo detto/ossimoro: "Anche il silenzio può essere assordante".

Chiudo il post lanciando una provocazione (1), facendo una constatazione (2), tirando una conclusione (3) e concedendomi una (semi)citazione (4):

  1. in caso di comunicazione analogica (gestuale) come si potrebbe definire il "rumore"?
  2. fatto sta che non c'è cosa più fastidiosa di questa interruzione un po' qua e un po' là
  3. ricordiamocelo bene quando scriviamo, gesticoliamo e scambiamo un'opinione
  4. magari con quattro amici; al bar.

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