Fioretti di scrittura 7: Ecce Ovo



[Continua da post Instagram]

Riassumendo, Picasso:

0. Studiava a lungo la fisicità dell’animale [ricerca]
1. Abbozzava le sue forme e i suoi volumi [progettazione]
2. Irrobustiva le forme e i volumi con ombre scure per aumentare il potere mitico-espressivo dell’animale [composizione]
3. Iniziava a scomporre, a se(le)zionare, le linee di forza dei muscoli e dello scheletro [inizio selezione]
4. Sezionava la figura in solidi, delineando i piani base della sua anatomia [schematizzazione]
5/6. Introduceva curve per ammorbidire le linee di schiena e gambe e capire il bilanciamento del peso e dell’equilibrio tra parte anteriore e posteriore dell’animale > tutte e tre le linee s’intersecavano in un punto che era il centro di equilibrio [schematizzazione]
7. Dopo che la figura aveva guadagnato peso ed equilibrio iniziava a destrutturarla, snellendo le linee di costruzione che avevano già svolto la loro funzione [semplificazione]
8. Riduceva la figura, racchiudendo gli elementi essenziali in un contorno teso [semplificazione + sintesi]
9. Rimuoveva le aree più complesse del tratto per lasciare solo le linee e le forme che caratterizzavano le forze fondamentali dell’animale [lima]
10. Continuava a ordinare, semplificare e sintetizzare la forma, raddrizzando le linee e appiattendo i piani [semplificazione, sintesi, lima]
11. Riduceva la figura a un semplice disegno astratto dalle linee essenziali [ordine, chiarezza, sostanza, essenzialità, solidità, incisività]

"Se una foto è una somma di aggiunte, un'immagine è una somma di distruzioni".

 E diciamolo: guardando il Toro numero 11 - così rupestre, primitivo, originario - sembra che Picasso abbia finito laddove avrebbe dovuto iniziare. Invece, come abbiamo visto, il Toro numero 11 è il risultato di un “processo” che, pur sembrando inverso, va nel verso giusto: dal complesso al semplice; dall’accademico all’astratto. Trovare la fine, nell’inizio; l’ordine nel disordine; il complesso nel sintetico; il complicato nel semplice. Aggiungere dettagli per poi toglierli. Cogliere l’essenziale nel "rumore" delle forme. Le forme di base nel complesso. Ottenere forme pure, attraverso la progressiva eliminazione del superfluo. Strutturare e destrutturare l’opera per arrivare al componimento, al cuore, al vero spirito.

Tanti pensano che l'arte consista nel vedere più dettagli, ma un aspetto importante dell’arte è quello di riuscire a vedere di meno. Imparare a semplificare argomenti complicati. Creare è tornare all’origine di tutto, dopo aver conosciuto tutto. La percezione è ciò che ci permette d’interpretare il mondo in modo unico; di tornare a vedere il mondo con gli occhi “puri” di un bambino.

“Ho imparato a dipingere come Raffaello, adesso devo imparare a disegnare come un bambino […] tutti i bambini sono artisti nati, il difficile è rimanerlo da grandi”

Il Toro n. 11 è la forma pura, embrionale, della creazione. L’uovo. L’idea. Il risultato di un processo che prevede ricerca, approfondimento, tecnica, esperienza, progettazione, composizione e, infine, scelta. E scelta significa “stile”: pochi tratti “stilizzati” per interpretare il mondo in modo unico, diverso.

La fase di “selezione” [dal più al meno] è la più delicata anche nel “processo creativo” di un testo, quella in cui siamo chiamati a conoscere e a rispettare le “limitazioni” imposte/auto-imposte dal mezzo, ma anche a mettere in gioco il nostro bagaglio di conoscenze espressive e contenutistiche – e, dunque, i nostri stessi “limiti”. Per la stessa ragione, al contrario di quanto si pensi, è la fase di “selezione” è anche la più creativa.

CREATIVITÀ = porsi delle limitazioni - conoscere i propri limiti - per poi impegnarsi a superarli, aggirarli e reinterpretarli. La “scelta” presuppone sempre una conoscenza, in quanto non esiste scelta se non esistono opzioni fra cui scegliere. Bisogna conoscere le regole e accettare i propri limiti, prima di poterli sovvertire.

Il bravo scrittore, dicono, è quello che conosce così bene la sua materia, strumentale e tematica, da riuscire a dire più con meno – che poi sarebbe come dire che senza basi non si va da nessuna parte o che più si domina la materia, più si riesce a spiegarla in modo semplice. E, in effetti, più strumenti abbiamo a disposizione per esprimerci, più riusciremo a farlo meglio.

Ricerca su canali e contenuti. Approfondimento linguistico (ché sì, la grammatica è uno strumento necessario per scrivere: mai visto un artista dipingere senza prima aver imparato a usare il pennello?) Esperienza. Scelta. Solo così, arriveremo a creare un testo ordinato, breve (ma chiaro), semplice (ma sostanzioso), solido e incisivo, che si muove dal più al meno per dire più con meno. Riprendendo il "metodo" di Picasso:

1. Studiare contenuti e canali [ricerca]
2. Affinare gli strumenti linguistici [ricerca]
3. Conoscere le “limitazioni creative” imposte dal mezzo e dal canale [progettazione]
4. Riconoscere i propri limiti e auto-imporsi dei limiti stilistici [progettazione]
4. Scrivere liberamente [composizione free]
5. Soppesare e riequilibrare il testo per destrutturarlo [inizio selezione]
5. Ordinare secondo le limitazioni imposte [selezione > schematizzazione > ordine]
6. Sintetizzare, togliendo il superfluo [selezione > sintesi > chiarezza]
7. Semplificare, senza banalizzare né intaccare la complessità [selezione > semplificazione > sostanza]
8. Limare, sostituendo parole/espressioni [selezione > lima > solidità, incisività]
9. Far valere i propri limiti stilistici per esprimere le nostre idee in mondo unico

Ordine. Chiarezza. Sostanza. Solidità. Incisività. Unicità. Ridurre il “rumore” di fondo. Andare dritti al cuore e allo spirito del testo. Tratteggiare il testo, cogliendo i pochi “tratti” che trasmettono la maggior parte del senso ed eliminando progressivamente il superfluo. Esprimere un’idea unica, attraverso delle precise scelte stilistiche. Scrivere un testo che ha un equilibrio e un peso. Andare da più a meno per dire di più con meno.

ECCE OVO.


 

Ventilando lo #slogan

"Anto', fa caldo", resterà una delle frasi più citate dell'estate.
Correva l'anno 2001 e quella che aveva tanto caldo era Luisa Ranieri, l'attuale moglie del commissario Montalbano. Si fa presto a dimenticare certe cose.
Esattamente quello ch'è successo al povero ventilatore, soppiantato dal più efficiente condizionatore. Ma se oggi un'azienda ci chiedesse di riposizionarlo sul mercato? Be' quale occasione migliore per divertirsi con qualche slogan... pazzo?




Ieri sera, prima di cena, sono scivolata sui profili social per dare un'occhiata. E mi sono schiantata sulla notiziona del giorno: è in arrivo la nuova tassa sul condizionatore.
Bufala o non bufala che sia, m'è venuta 'na gran fame. Di quelle nervose, tipo.
E sono volata al supermercato per buttare sul carrello una mozzarella gigante. Di bufala, tipo.

Piccolo Inciso 
[Caro Governo, vuoi rialzare le sorti dell'economia food? Tieni in apnea il cittadino. L'iperventilazione costante è la strada giusta. Risultato assicurato.]

Davanti al mio piatto caprese bianco, rosso e verde - intenta a divorare l'italica bandiera - ho continuato a riflettere sullo scenario futuro: condizionatore = roba da ricchi.
E, poi, ne ho immaginato uno ancora peggiore: condizionatore = roba che semina microbi.
Infine, condizionata dal mio stesso giochetto, ho ipotizzato una scelta obbligata: il ritorno sul mercato del buon ventilatore, ormai dimenticato.
Mettiamo per un attimo che le cose si mettano davvero così.
Come la mettiamo a livello di slogan pubblicitario?


Ventilando... un'ipotesi
Il caldo blocca le sinapsi? Affatto. Puoi diventare molto creativo, se non rischi di andare al creatore.
Quindi ieri notte, tra uno sbadiglio (?) al basilico e l'altro, mi sono divertita un po' a inventare slogan immaginari per il nostro Don Chisciotte. Ah, è così che ho chiamato il ventilatore dell'azienda che ha l'intenzione di riposizionarsi sul mercato dopo lo scenario apocalittico che ha decretato la morte del condizionatore tra microbi rari e costi di tassazione.
Inspiro. E m'ispiro.

#1
Ventilatore da terra multi-color, in ghisa = super-leggero, smontabile in tre mosse.
Colori disponibili: verde, giallo, azzurro, bianco e fucsia.
Visual: sfondo da definire, leggero alito di vento, Don Chisciotte munito di chioma, sorriso e occhioni - inutile dire che quello rosa sarà una sexy-biondona.
Slogan: Datti delle arie - Datti arie Diamoci delle arie - Diamoci arie.

#2
Ventilatore in acciaio da terra e da tavolo, design moderno - quasi un pezzo d'arredamento.
Colori disponibili: bianco e grigio; bianco e arancione.
Visual: comparativo = condizionatore che suda da una parte; Don Chisciotte che asciuga dall'altra.
Slogan: Non farti condizionare - Non lasciarti condizionare.

#3
Ventilatore da tavolo, classico e tradizionale.
Forme disponibili: quadrato, tondo, ovale.
Visual: comparativo = condizionatore attaccato alla parete; Don Chisciotte sul comodino che tossisce.
Slogan: Say "no" to coff coff.

#4
Ventilatore da terra in ghisa, allungabile e scomponibile.
Colore disponibile: verde prato.
Visual: Don Chisciotte che si erge su una distesa d'erba come una pala eolica immensa.
Slogan: Wind Green - che poi, magari, diventa pure un hashtag.

#5
Ventilatore tripede da terra.
Colore disponibile: bianco e nero.
Visual: Don Chisciotte col cilindro e il cravattino che fa quattro passi di tip-tap; donne che seguono affascinate le sue "arie" benefiche.
Slogan: Che sventolo!


Delirando s'impara...
... e anche deragliando dal solito binario. In questo può aiutare il caldo.
I plus messi in evidenza da questi slogan sono diversi e ne possiamo ipotizzare tanti altri.
Lo facciamo insieme. Oppure mi dici quali sono, secondo te, i vantaggi che risaltano.
C'è il valore d'uso, quello percepito e... il tema "ecologico". Ovviamente.
Tutte scelte che, in un caso reale, dipendono dal brief sul cliente.

Forse non sei un copywriter e nemmeno un art-director che può darci un parere sul visual. Ma puoi divertirti lo stesso e imparare a creare slogan fantasiosi.
Che dici? Dai, che ti aspetto.

Io? Mi ergo a testimonial

Già lo so.
Dopo "Io?" ti aspettavi Clio: bravo il copywriter che ha fatto bene il suo lavoro. 
In questo post, però, parliamo di pronomi - e non di verbi (pro)motori.
La question(e) è: secondo te funziona la prima persona? 
Oppure, col blaterare di se stessi, troppo si osa?
Forse che no. Forse che sì.
Tu sali a bordo e scoprilo con me. Qui. 


Sei persone sei: tu che pronome sei?

  • Io 
  • Tu 
  • Egli/ella/esso/essa 
  • Noi 
  • Voi 
  • Essi/esse.

Be', se non sei fessa/o, nella scrittura online non usare -essa/esso.
Ridi? Guarda, ho letto e-mail che tu persona umana non puoi capire nemmeno se dotata di un cervello capiente: proprio non ci stanno, credimi.

Scegli forse ella/egli? Non è una mossa bella - a meno che non ti chiami ZanELLA [come me].
Comunque è più accettabile questa di quelli.

Detto ciò, fesso o non fesso, mi pare ovvio che tu scriva da solo con te stesso - quindi sei "tu" nel senso di "io". Il problema è capire quale persona ti conviene "usare" per rivolgerti agli altri in una comunicazione di tipo commerciale. Farò una carrellata veloce di pronomi e vantaggi - l'argomento è vasto - per approdare con te all'io [non diventeremo un "noi", stai sereno zio :-)].


Il "tu" imperator(e)
Il "tu" impera in ogni dove.
Una tendenza anglosassone che ha il vantaggio di creare un'atmosfera confidenziale, senza rinunciare all'incisività; t'invito in modo coinvolgente, ma sono poco invadente.
È il famoso "tutto intorno a te" di Vodafone - per dirla con un claim azzeccato.
O il cosiddetto reader focused writing del business writer - per dirla con un linguaggio tecnico.
Il "tu" fa sentire il lettore protagonista, lo mette al centro del testoè molto diretto.
TU che pensi di quello che hai appena letto?


Il "noi" aziendale
Non ha una bella fama questo pronome, che suona spesso come un trucchetto da plurale maiestatis.
Però, però, però.
Secondo la mia esperienza personale - ed EGOcentrica - ci sono casi in cui funziona un bel po'; io lo sfrutto nei siti aziendali e i motivi principali (?) sono due:

  1. rafforza l'identità di gruppo
  2. si può insistere sulla compensazione noi/tu come fosse un plus

È il buon vecchio "Noi? La soluzione per te".
Declinato in varie forme, ovvio; ma NOI ce la possiamo cavare in ogni situazione, TI pare?


Il "voi" massivo
Scrivi per i mass-media, certo.
E la massa si definisce con un termine da brivido: target-group.
Ma, secondo te, per centrare l'obiettivo, quella massa si deve sentire tale e fare da bersaglio?
No, ovvio. Eppur, guarda, non è affatto un dettaglio. 
Il "voi" si usa spesso nei blog per chiedere un parere ai lettori, partendo dal presupposto che sono più di uno - lo spero bene per VOI :-)
Fin qui niente di male: definire i seguaci di un blog come un gruppo selezionato può anche giovare - con tone of voice al limite dello snob, azzarderei.
Ma che dire nel caso di una comunicazione aziendale? Io lo sconsiglio per i motivi di cui sopra: dare spudoratamente del target al target equivale a sparare bla bla bla mancando l'obiettivo. Tu allungalo e sii lungimirante, piuttosto. Soprattutto quando sei all'inizio e non sei abbastanza tosto.
[Tra l'altro, a proposito di blog, hai notato che la prima frase funziona pure con voi? "Se non siete fesse/i, date un taglio a essi/esse. Succede spesse volte].


Io? L'oblio
Quello che scrive sei tu nel senso di IO - l'abbiamo detto.
Ma questo pronome è limitato alla riflessione pre-pubblicazione: quando diventa il riflesso di uno specchio senza limes, ha l'effetto stucchevole di un ego rifatto. Narcisismo che lascia di stucco.
Anche se. Anche se. Anche se.

  1. L'IO può veicolare un'esperienza personale utile al lettore - magari sottoforma di esempio [l'ho appena fatto: leggi qualche riga più su]
  2. L'IO può essere testimonial di un'esperienza che veicola il prodotto

(S)corri qua:

[...] Non ho voluto rinunciare al movimento; eppure lo sapevo che sarebbe stato faticoso. Oggi il cerchio di fuoco è impietoso. Corro, corro, corro. Sento il verde dentro le narici; il rosso del mio viso è imperlato di sudore trasparente. Rimando l'attimo in cui mi fermerò sotto l'ombroso pioppo che tutto gela; l'attimo in cui mi accascerò sulla terra e agguanterò la mia bottiglia di aranciata ghiacciata. Alla fine, penso, è proprio per toccare quell'apice di benessere assoluto che sto correndo. E che lo faccio ogni giorno.

Ecco il mio esempio di IO testimonial.
Il testimonial parla in prima persona e veicola un'esperienza quotidiana, quasi un breve racconto - se vuoi chiamarlo storytelling fai pure -  che trascina il lettore nell'atmosfera. Forse, la prossima volta che farà movimento, si ricorderà questo brano con un cenno sollevato del mento. Chissà se riderà.
Si chiama immedesimazione. Lui/Lei  è una persona come te/noi: ama correre, ma non è un super-eroe; e gli costa fatica.
Lui/Lei - Tu - Noi.
Te l'ho detto: con i pronomi succede spesso. Se vuoi scrivere, devi capire il "trucchetto".

È come "Perché io valgo" di L'Oréal - per citare un claim egoistico.
O il "Tu sì que vales" di Endemol - per dire un titolo altruistico.

Il pronome è diverso: l'intento è lo stesso.
Valgono entrambi la tua attenzione? Io dico di sì.


APPendice 1
L'esempio che ho fatto sulla corsa al parco, è coerente con la definizione inglese di testimonial; il claim di L'Oréal, invece, rientra nel cosiddetto endorsement.
In Italia questa distinzione non si fa; ma è bene che tu sia testimonial dell'assurdità.

APPendice 2
Se vuoi esercitarti sull'IO testimonial, inventati un prodotto e veicola un'esperienza unica.
Un'esperienza che metta in risalto i plus e che faccia la differenza con la concorrenza.
Ho insistito sui colori nel mio esempio; perché ovvio che il mio prodotto ne ha uno mai visto... magari è fatto di arance talmente rosse che la sfera di fuoco non vince sulla forza dissetante.
Oppure non è un'aranciata, è un succo d'uva azzurro come il ghiaccio.
Anzi no, sai cosa? Il mio prodotto esiste di tutti i colori citati nel brano; ed è proprio così che studierò il visual quando uscirà: arancione-sole; verde-prato; trasparente-rugiada. Con la bottiglia che torreggia sul paesaggio dorato. Proprio là, in primo piano. Sul davanti.
Di sicuro uno dei plus sarà l'assenza di coloranti.

O forse no?
Chissà. Dimmelo tu :-)

Più "answers", meno ansia: il meccanismo della domanda

Farsele è cosa buona e giusta.
Ma quali sono le domande giuste?
A chi dobbiamo farle?
E, soprattutto, come dobbiamo posizionarle?
Tre domande [e più] per rispondere al meccanismo della domanda.
Leggi di più. Qui giù.


La conoscenza - quella profonda - si nutre del dubbio per trovare forma.
La questione, più che socratica, è logica: non possiamo sapere tutto di tutto; succede, quindi, che l'atteggiamento più conveniente da tenere sulla questione "sapere di non sapere" è quello di farsi quante più questions siamo in grado di contenere. Sulle cose; sui sentimenti; sulla gente.

Trattasi d'istinto naturale, infondo; quello che sorge dal profondo. Un meccanismo oliato che scivola lenta.MENTE dalle "rotelle base" del fanciullo ai "binari elicoidali" dell'adulto. Un atteggiamento che riguarda prima di tutto noi stessi, poi il mondo che ci gira intorno.

Se hai deciso di scrivere per comunicare, non solo devi farti domande varie; devi anche riuscire a prevedere/anticipare quelle di chi legge.


[partire dagli altri] - Leggere per capire chi ti legge
Niente è legge, se non è scritto sul codice.
Ma il caso - amaro - vuole che anche la scrittura sia codice; un codice che, al di là della correttezza grammaticale, ognuno può usare come vuole. L'importante, alla fine, è farsi capire da chi... legge.




Ecco una slide del mio intervento al Master in Comunicazione delle Scienze dell'Università di Padova. Cambia una vocale; cambia tutto. Al di là di questo, credo che la prima question da porsi per scrivere bene su un determinato argomento, sia quella di esaminare il testo di chi quell'argomento lo tratta già - incutendo un certo rispetto. Vestire i panni del lettore vuol dire capire il suo punto di vista. Diventa lettore degli altri, quindi: fai un giro sul web, stampa l'articolo di tizio e segna. Segna tutto quello che va bene con una penna verde; e tutto quello che non va bene con una penna rossa.
Non ti peritare: la scrittura è maestra di se stessa. Scossa? No.
Inizia la tua "analisi sperimentale" dalla struttura superficiale del testo e poniti qualche question:

  • com'è il layout?
  • Come sono i font? Riesco a leggere bene?
  • C'è abbastanza interlinea tra una e l'altra riga?
  • E i colori? C'è distinzione tra titolo, link e il corpo del testo?
  • Ci sono grassetti e corsivi? E il modo in cui sono distribuiti è chiaro?
  • A colpo d'occhio distinguo i paragrafi?
  • A colpo d'occhio il contenuto è ben distribuito nello spazio dell'interfaccia? L'occhio prende un colpo e si blocca... oppure respira e gli pare tutto chiaro?

Poi continua con l'analisi profonda del linguaggio:

  • che parole ha scelto l'autore? Io avrei fatto lo stesso? Sono chiare?
  • Quanto sono lunghe le parole? E le frasi? E i periodi? 
  • Tutto scorre oppure perdo il filo e m'inceppo di netto?
  • In quale forma sono i verbi? 
  • Ci sono avverbi e circonlocuzioni?
  • Ci sono figure retoriche?
  • Il concetto complesso è semplificato?

Sono solo esempi, ovviamente. Ti basti sapere che, dalla revisione sul testo degli altri, s'imparano concetti come "contraddizione" ed "emulazione". Due cose importanti.


[partire dagli altri] - Ascoltare... per essere ascoltati



A te piacerebbe tantissimo scrivere quello che vuoi, come vuoi e dove vuoi.
Infatti, quand'eri piccolo, avevi un bel diario nel cassetto; peccato che, oggi, quel diario è diventato un blog con lucchetto aperto. Oggi, se vuoi essere letto, devi saper ascoltare... e non solo nel senso di soddisfare quello che un pubblico dai contorni sfumati vuole sapere. Oggi saper ascoltare vuol dire intercettare un bisognofarlo prima di tutto con se stessi; vuol dire farsi delle domande su cosa devi scrivere, quando, perché, dove... e, soprattutto a chi. Potresti prendere in considerazione lo schema della 5 dabliu più uno per farti le domande giuste e rispondere di conseguenza:

  • who = a chi - o meglio "per chi" - sto scrivendo? Quesito fondamentale da cui dipendono tutti gli altri, oltre che scelte quali il "taglio" sull'argomento, il "registro linguistico" e lo "stile"
  • What = cosa voglio scrivere? Una limitazione al tuo ego, spesso; perché, ripeto, il fulcro del testo dev'essere sull'interesse del "pubblico". Attenzione che qualsiasi argomento è vasto: bisogna informarsi, conoscere a fondo le sfumature e decidere cosa valga la pena dire
  • When = quando voglio scrivere? Io scrivo di notte; lui di mattina; lei in pausa pranzo. Il punto non è quello: il punto è scegliere il momento giusto per pubblicare
  • Where = dove voglio scrivere? Ogni mezzo ha il suo linguaggio; lo stesso contenuto si presenta in forma diversa a seconda della piatta.forma scelta
  • Why = perché voglio scrivere? Già... perché hai deciso di scrivere su quell'argomento? Cosa vuoi comunicare al tuo pubblico? E perché dovrebbe ascoltarti invece, che so, di guardare un bel video o farsi due passi? Se non lo sai tu, non sperare che il motivo lo trovi lui
  • How = come voglio scrivere? Eccola qua la sesta dabliu, già conosciuta dai nostri retori romani. Inutile dirlo: il come si dice una cosa, è più importante della cosa stessa. Ricordati che il tuo pubblico deve capire, ma anche provare interesse per quello che legge. Il pubblico non regala il suo tempo e deve avere un vantaggio. Sempre.


[partire dagli altri] - Anticipare per incitare
Il pubblico non regala il suo tempo e deve avere un vantaggio. Sempre.
Voglio ripetere l'ultimo concetto duro e gretto: quest'è l'era della velocità... media.
Infondo il "mercato" non è forse una risposta a "domande latenti"? E se non intercetti le domande giuste, come puoi soddisfarle? Vero: scrivere non è sempre vendere. Oggi, forse, lo è un po' di più.
Ma come puoi riuscire a catturare l'attenzione per suscitare un interesse?
Ebbene ricordi il discorsetto iniziale su quell'istinto naturale di farsi una domanda per curiosare, risolvere un dubbio e provare lo stimolo irrefrenabile di rispondere? Qui sta il potere delle questions.
Quando scrivi devi portare in superficie - nel testo - i dubbi sommersi - nella testa.
Il pubblico non è un'entità astratta: è fatto di persone. Hai mai provato a immaginarlo in senso fisico?
Ti sei mai chiesto dove sarà e cosa starà facendo quando leggerà il tuo testo? Fagli una domanda, vedrai che ti risponde. L'importante è scegliere bene quale porre, come porla e... dove.


[partire da se stessi] -  Scrivere per coinvolgere
Tocca a te scegliere il modo per incuriosire chi ti legge, suscitare dubbi, stimolare risposte.
La meravigliosa lingua italiana dà tante opportunità per gestire la questione... questions.

  • Domande dirette = effetto BUM; provocano il meccanismo immediato di risposta e stuzzicano la curiosità primordiale: l'istinto spinge il lettore a cercare le answers con ansia e l'occhio si SOSpinge a "frugare" tra le righe. Le domande dirette vanno bene ovunque: nel titolo dell'articolo e/o del paragrafo; a inizio/fine sottotitolo; alla fine dell'articolo. Si parla di call to action (= chiamata all'azione), quando lo scopo della domanda è quello di spingere il lettore a compiere un gesto: condivisione, apprezzamento, commento. Questo è anche il motivo per cui, spesso, le domande si trovano su "pulsanti tattici" di siti e blog - iscrizione alla newletter; acquisto del prodotto; partecipazione a un evento; ecc.
  • Domande indirette = sono meno impattanti di quelle dirette, ma - proprio per questo - meno pesanti e più subliminali; la cosa interessante della domanda indiretta è il rovesciamento di prospettiva molto evidente. In pratica, ogni volta che sei tentato di scrivere in prima persona, chiediti se non sarebbe meglio spostare il baricentro su chi ti legge: non "mi sono chiesto perché tizio ha fatto questa scelta"; ma "ti starai chiedendo perché tizio ha fatto questa scelta". Ci sono delle belle differenze. Non trovi?
  • Domande retoriche = te ne ho appena fatta una. Sono un bluff, perché non vogliono una risposta. Quindi... perché? Perché usarle nel nostro bel testo? Ue'! Stai mandando a ramengo millenni di arte oratoria: sappilo. La domanda retorica è "coalizzante": il suo fine è quello di spingere il lettore dalla nostra parte, incalzando il suo consenso "a raffica" - quasi senza lasciarli tempo di ragionare. Il meccanismo botta/risposta avviene in automatico, proprio perché la risposta è sottintesa. "Per dialogare bisogna farsi ascoltare. Ovvio, non trovi? Cerchiamo di capire come: seguimi tra le righe". Il lettore è già dalla nostra parte; la sua risposta sarà la nostra. Non solo. La domanda retorica diventa tattica quando a parlare è un'azienda: "Hanno deciso di farci spendere soldi inutili; hanno scelto di farci credere che le possibilità di scelta non ci fossero; per quanto tempo ancora noi tutti permetteremo che questo avvenga? Noi di X abbiamo deciso di offrirti un'alternativa" - noi tutti = noi azienda.


Domanda finale: tu da che parte stai?
Forse che scrivere per comunicare significhi non prendere parti?
Oppure, per farsi capire dagli altri, bisogna riuscire a vedere le cose da più parti?
E da quale parte si deve cominciare per dividere il contenuto in tutte queste parti?

Sai cosa?
Forse scrivere è un party: una vera e propria festa aperta a tutti.
Sulla targhetta della porta una domanda netta "decidi di passare dritto? Amico, non sai cosa ti perdi".
Giusto per stimolare il dubbio. Che, poi, è naturale ansia da ricerca continua di... answer.

Scrivere un PDF semplice, semplice [sì, certamente]

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Non so come iniziare questo post.
Che dici, post-icipo l'incipit?


Non sia mai!
Succedono cose non previste quando butti giù parole.
Tipo imparare che l'incpit devi scriverlo alla fine, ma prima della conclusione.
Se pensi che stia strolichiando con i soliti giochetti, stai facendo uno sbaglio.
Tutti sappiamo che il modo in cui s'inizia un testo è fondamentale per spingere chi legge a dedicarci il suo tempo. Di qualunque testo si tratti e su qualsiasi mezzo.
Chi fa finta di non vederlo, sta prendendo un abbaglio. Questo è certo.


Il caso: un PDF semplice, semplice
Qualche giorno fa ho finito di creare l'ultimo video promozionale per un CD commerciale.
I video sono in tutto sette, più cinque di carattere tecnico.
Il prodotto da lanciare è un registro elettronico per la scuola media/elementare.
Il target non è definibile: saranno gli agenti di zona a distribuire il CD e non è possibile prevedere chi lo guarderà... segretario? Dirigente? Docente? L'unica certezza è che quel CD sarà abbandonato su qualche scrivania per un tempo eloquente, dato che il target non si vuole "beccare" il registro digitale. Non entrerò nel merito del perché e del per come dar torto o ragione: basti sapere che ci muoviamo su un terreno scivoloso per qualsiasi approccio di comunicazione.

Il CD promozionale dev'essere pronto per mercoledì; penso che ce la farò, perché manca solo il PDF con mini-lettera d'introduzione al potenziale lettore. Mi dico che "un paio d'ore e lo finisco... si tratta di un PDF semplice, semplice". Sì, certamente.
Peccato che mi scontro subito con queste incongruenze:

1. come organizzare il testo di una lettera commerciale che lettera commerciale non è?
2. Su quali leve puntare per spingere il cliente a guardare mezz'ora di video su un prodotto che non si vuole beccare per niente?
3. In che modo definire il target, visto che ogni Istituto ha gerarchie reali ben lontane da quelle previste a livello istituzionale?
4. Ma, soprattutto, quale tono e stile adottare per esprimere un concetto trasversale che si possa adattare a qualsiasi persona decida di guardare?

Io quel PDF semplice, semplice ho quasi finito di scriverlo. E voglio raccontarti come procedere quando ti trovi in queste situazioni che di semplice non hanno proprio niente [avvertendoti fin d'ora che - per questo PDF semplice, semplice - ho scomodato l'insegnamento di un grande oratore].


Prima di scrivere, bisogna "indagare"

  • L'argomento
Secondo il diciannovenne Cicerone - GULP - "non ci può essere abilità nel comunicare, se non c'è una solida assimilazione di ciò che si comunica". Lampante come l'abbaglio che hai preso all'inizio di questo post(o) al sole. Prima di metterti a scrivere, devi conoscere bene l'argomento su cui scriverai: ovvio. E siccome tu sai esporlo nel modo giusto, alla fine spiegherai il prodotto/servizio meglio di chi l'ha inventato/progettato; è il tuo lavoro, d'altronde.
Prendi me: certo non sono io che ho scritto il codice del software elettronico che oggi mi trovo a comunicare; ma è anche vero che l'ingegnere elettronico non è tenuto a comunicare bene.
Nella fase iniziale c'è, quindi, uno scambio continuo d'informazioni tra chi svolge la parte tecnica del progetto - o chi c'è semplicemente dentro - e chi deve rendere i vantaggi all'esterno. Uno scambio spesso difficile, fatto di domande, spiegazioni frammentarie, schemi/schemini e vocabolari come se non ci fosse un domani. Sei un mago delle parole, ma non puoi conoscerle tutte. Il fatto è che semplificare i vantaggi di un prodotto tecnico in modo da renderlo comprensibile a chi tecnico non è, significa comprenderlo a fondo - scusa il gioco, stavolta sì. Bisogna apprendere per rendere in app.
Compila questionari, chiedi ai clienti tutto - ma proprio tutto - del loro prodotto e anche del loro "pubblico". Noioso, a volte frustrante. Ma quest'è.


  • Il lettore
Cito ancora Cicerone: "Bisogna avere una profonda consapevolezza dell'animo umano per stimolare, convincere e persuadere coloro che ascoltano". Nel nostro caso "coloro" non ascoltano, ma guardano e leggono; il concetto è chiaro e si riassume in un precetto - anzi due: immedesimazione ed esperienza condivisa. Pensa intensamente al tuo lettore: se non ce la fai nella prima stesura del testo - ché le idee si affollano in testa - fallo alla seconda. Pensa a lui come un essere con idee precise, ma anche con una fisicità/posizione. Siediti accanto alla poltrona.
Più conosci il tuo "nemico" - concedimi l'espressione, perché lui a te non concederà niente - più saprai calarti nelle sue esigenze e toccare le sue "corde" per centrare il bersaglio.
Uscire dal punto di vista soggettivo è difficile: ovvio che tu per primo devi trovare una validità nel prodotto che lanci - anche se non ce l'ha. Quando lavori a stretto contatto con il target - come me - hai un vantaggio: sai come pensa e puoi "aggirarlo"; ma quando ti commissionano un lavoro dall'esterno, il discorso è diverso: tocca diventare un po' avvocato del diavolo. Ecco qualche espediente:

- porta il lettore dalla tua parte, esplicitando il suo problema
- ricorri ai luoghi comuni e all'esperienza condivisa [pensa al processo mentale di convincimento che fai su te stesso e scrivilo nel testo]
- fai una promessa in sintonia con l'esigenza [risolvere un problema, rispondere a un bisogno]
- rendilo protagonista del tuo messaggio - è ciò che gli americani chiamano reader focused writing
- anticipa commenti, dubbi, preoccupazioni per il cambiamento

Io ho applicato le regole in questo modo:

1. il lettore è prevenuto e svogliato - stimolo la sua attenzione in modo deciso: "Questo CD richiede mezz'ora del tuo tempo e della tua attenzione..."
2. il lettore è calato nella sua esperienza quotidiana - spero che tenga il CD in vista sulla scrivania e gli rivolgo un invito velato: "... puoi guardarlo tutto di fila o tenerlo sulla tua scrivania per concentrarti sul singolo video quando sarà il momento"
3. il lettore è assillato dal cambiamento - mi propongo come soluzione, vestendo i suoi panni: "I primi tempi saranno difficili. Poi comincerai a provare e testare sul campo. Infine lavorerai meglio. Noi siamo qui per capire insieme come migliorare il tuo modo di lavorare".


  • Le parole
Anche quelle vanno "indagate": conoscere il significato originario dei termini è fondamentale per aggirare l'incomprensione e semplificare il concetto; ma anche per esprimersi in modo adeguato a situazione/lettore/contesto - quello che Cicerone definisce decorum e noi "buon senso".
Insomma prima d'iniziare a scrivere bisogna avere ben chiaro cosa dire, quanto e in quale modo.
Eliminare le distanze tra lettore e scrittore è il primo fine della comunicazione.
Già, ma il "dove"... dov'è?


Organizzare bene per esprimersi (al) meglio

  • Informare e persuadere
"Dobbiamo dare l'impressione d'informare, mentre distilliamo emozione fra le righe dell'intero discorso" - eh, ti pare facile caro Cicerone. Tono e stile dipendono - come il resto - da obiettivo, target, contesto; e tempo a disposizione. Formale? Colloquiale? Professionale? Emozionale? Impossibile determinarlo all'inizio, se non in rari casi dove tutte le variabili sono ben definite. 
Io ho scelto un tono colloquiale - dando del "tu" - ma professionale allo stesso tempo - bando all'ironia e all'esclamazione sensazionale. In linea di massima, è sempre importante comunicare una "finestra aperta sul futuro" - come dice Lucchini - o "prospettare un vantaggio futuro" - citando il più formale oratore romano. Se fai una promessa, comunque, mantienila.


  • "Scalare gli argomenti"
Scegliere gli argomenti da mettere in luce è affare complesso, ma necessario.
Nella retorica ciceroniana questa cernita è parte dell'inventio - fase preliminare del discorso. In effetti se prima non fai ordine, diventa impossibile esporre.
Ti consiglio di creare una bella scaletta - o un cluster (mappa mentale). Quando inizierai a scrivere, tutto sembrerà valido: tieni presente l'obiettivo finale per eliminare gli argomenti più deboli.
Attenzione: hai poche righe a disposizione; e gli argomenti più deboli sono quelli rispetto a concorrenza e lettore, non secondo la tua opinione; in questa fase ti aiuterà il questionario iniziale. Se vuoi fare ulteriore chiarezza, scrivi plus e minus in due colonne diverse e sposta gli argomenti in base a forte/debole. Il fine è sempre "vendere", ricordalo bene.
Nel mio caso, che funge sempre da esempio, ho sfruttato un minus come plus. Il docente crede fermamente che il registro cartaceo sia meglio di quello elettronico: inutile incaponirsi a sostenere il contrario; meglio immedesimarsi per convincerlo: "Non ti diremo che [nome prodotto] è uguale a un registro di carta: ci sono dei motivi per cui lo troverai meno elastico; altri per cui ti stupirai del tanto lavoro risparmiato". Ogni cosa ha pro contro: sfruttali entrambi a tuo vantaggio.


  • Mettere in ordine gli argomenti: iniziare bene fa scorrere l'opera
Entriamo, finalmente, nel vivo della "stesura". 
Ci siamo informati; ci siamo immedesimati nel target e calati nelle sue esigenze; ci siamo scervellati per mettere ordine fra gli argomenti, scegliendo quelli che fanno al caso nostro; adesso dobbiamo disporli nel testo. E, non a caso, nella retorica classica questa fase organizzativa si chiama dispositio, dove incipit e conclusione hanno rilevanza assoluta - o pensavi fossero una moderna invenzione?
No eh!

"Sbaglia chi non pone all'inizio gli argomenti più solidi: se non si attira l'attenzione subito, bisognerà fare molta più fatica lungo il discorso [...] l'esordio dev'essere preciso, efficace, dare un'idea di ciò che verrà detto e predisporre al seguito [...] l'esordio dev'essere strettamente legato a quello che segue, formare un tutt'uno coerente con il cuore dell'argomento" [Cicerone]. 

Per questo succede, spesso, che l'incpit si scrive alla fine del testo. Secondo Lucchini "Nulla è più efficace di un buon inizio: breve, leggero, pronunciabile in un solo respiro". 

Manco a dirlo, l'incpit è quello che mi ha creato più problemi nella stesura del "PDF semplice, semplice", tanto da aprire un dibattito in Community [L'incidente dell'incipit che incide].
Volevo definire la "formula di benvenuto", quando il target non era definibile. Impossibile.
Meglio iniziare con un bel pronome dimostrativo che mette al centro il lettore chiedendogli "mezz'ora del suo tempo". Meglio farlo senza preamboli, ché quel lettore - chiunque egli sia - il suo tempo non lo regala a nessuno: te lo devi conquistare.

La tecnica del questioning - fare domande - dà sempre ottimi risultati: il "come" invita al rapporto; il "perché" scende nell'intimo. Tant'è che il mio PDF continua con: "Adesso vuoi sapere perché devi guardare questo CD. Giusto?" - anticipo la domanda che lo spietato lettore si sta già facendo "Sì ok, ma perché dovrei regalarti mezz'ora del mio tempo?".
La tecnica funziona anche quando la domanda è riflessiva: "Nell'affrontare la sfida digitale, ci siamo fatti una domanda [...] La risposta è stata positiva, ché a volte sono tanti i punti di contatto tra cose apparentemente lontane" - porto il lettore dalla mia parte, lo costringo a cambiare il punto di vista.

Le 5 dabliu distribuite nelle prime righe del testo, vanno altrettanto bene: chi, cosa, quando, dove, perché; e pensa che i latini ne conoscevano ben sette: chi, cosa, perché, dove, quando, in che modo, con quali mezzi [da qualche anno i cugini americani si sono allineati con l'aggiunta (?) della sesta dablliu - how, appunto]. Stessa dignità dell'esordio deve avere la conclusione, dove si fissano i punti più importanti nella mente del lettore e si cerca di spingerlo all'azione.


Schematizzare per... creare
Anche di "repertorio comunicativo" parla Cicerone, riferendosi a una serie di tecniche da sfruttare per ottenere la "vittoria" finale: "Un bravo comunicatore saprà tornare in modi diversi sui medesimi concetti, insistere su un solo punto e rimanere coerente con la stessa idea. Anticipare cosa dirà poi e, completato il ragionamento, riassumerlo, richiamare quanto affermato e ribadirlo invitando all'azione".
Che vogliamo aggiungere noi, poveri scribacchini, quando tutto è stato già detto?
Lucchini - e altri prima di lui - notano come la retorica classica si possa rendere in tre punti:

1. dico ciò che dirò [esordio: ti sto dicendo che questo CD richiede mezz'ora del tuo tempo]
2. lo dico [narrazione: domanda riflessiva iniziale per bloccare l'attenzione; elenco dei plus]
3. ridico ciò che ho detto [conclusione: riassumo i punti focali; prospetto i benefici e/o mi propongo come risolutore di problemi; spingo all'azione di contatto]

Nel mio caso il CD promozionale è solo il primo passo; e allora scrivo anche quello: "Sappiamo che un software didattico richiede affiancamento, presenza in loco e risposte precise - che molto dipendono dalle problematiche soggettive. Per questo il tool qui proposto è un aiuto alla comprensione, ma rimane solo un approccio; come quando si sbircia una cosa da lontano, per capire come funziona. 
La speranza è quella di stringerci la mano. Intanto, ti ringraziamo".

Immedesimazione, prospettiva di soluzione, chiusura del cerchio su tempo e attenzione. Si chiama expository-writing = scrittura espositiva/argomentativa: introdurre, sviluppare, ribadire.

Ti lascio uno schema utile per "sbrogliare" matasse come questa; è lo schema di Paul Le Roux e lo trovi nel suo libro "Presentare per convincere":

1.visione d'insieme [es. l'uso del registro elettronico fa risparmiare tempo a chi deve insegnare, perché velocizza le fasi di lavoro]
2. problema/bisogno [es. tutti vorremmo avere più tempo da dedicare all'insegnamento, senza rinunciare alla valutazione "umana" di scuola primaria e secondaria]
3. idea/soluzione [es. ecco perché il nostro registro è studiato su misura per l'Istituto Comprensivo]
4. evidenza [es. i plus tecnici in linea con l'obiettivo]
5. vantaggi pratici [es. riduce il tempo di lavoro; aumenta la trasparenza; c'è un risparmio economico e maggiore indipendenza; migliora le comunicazioni scuola-famiglia; costa poco]
6. riepilogo [finestra sul futuro: vuoi provare a migliorare la tua scuola con noi?]
7. azione [CTA: hai diversi modi per contattarci].

L'esordio è nei punti uno e due; la conclusione nei punti sei e sette.


Conclusione di questo post [senza inizio]
Vuoi sapere di quante pagine è il mio PDF semplice, semplice? Tre, più le informazioni di contatto.
Tre misere pagine, compresi gli spazi. Lavoro per compilarle? Tantissimo. Direi sproporzionato - spero non rispetto al risultato. Perché se devi scrivere una cosa bisogna che tu lo faccia bene; bisogna che questa abbia l'effetto sperato. Altrimenti non sarà solo il tempo ad essere buttato, ma anche il denaro investito da chi quel lavoro te l'ha commissionato.

Ora tu mi chiederai: cosa c'entra tutto questo con il copywriting?
Io ti rispondo con una citazione tratta dal libro Business Writing: "C’entra, perché non c’è troppa differenza tra scrittura di lavoro e altra scrittura: scrivere è un fatto di testa, ma soprattutto di cuore; significa esprimere la parte più intima di sé".

Io, invece, chiedo a te: allora, quale incipit mettiamo a questo post? Eh? Ehh? Ehhh? :-)


Quotes: a quanto li quotiamo?

Il sentiero del web è costellato di quotes, manco fosse quello di Pollicino. 
Ma quante stelline e quanti pollicini guadagnano i quotes?
A quanto li quotiamo in termini d'interazione e "pane quotidiano"?
Facciamo il punto della situazione.


Inizio questo post con una sottile provocazione; e lo faccio con una variazione sulla congiunzione. 
Mi pare ovvio che Bruto, figlio adottivo di Cesare, non quotava affatto il suo modo di fare politica - e non escludo che l'abbreviazione del vocativo mihi in mi sia da attribuire a questa disamina qui [rido molto].

Ri-componiamoci.
Vero è che mille quotes invadono le pagine web: quel tanto che quand'è troppo... stroppia e scoppia.
Layout, font, strumenti veloci per citazioni visual: ogni mezzo è lecito per colpire l'attenzione dei lettori con parole, parole e... parole. Una mina (?) vagante che rischia di oscurare il senso con l'overload del verbo. Paradossale, non trovi?

Io sono pazza; ma l'esempio latino è parecchio azzeccato: si sappia. Perché la citazione BARRA quote viene da lontano; e la sua etimologia unisce l'inglese al linguaggio... nostrano.


Lo vedo scritto su tutti i muri...
... e pure su tanti diari. Dai su, non abbiamo inventato niente.
Facendo un giro a Pompei, scopriamo che i giovanotti (?) di 2000 anni fa imbrattavano i muri con scritte d'ogni tipo: c'erano quelle dipinte [manifesti elettorali] e quelle incise dalla gente comune; c'erano le frasi, ma anche i disegni. E, ovviamente, non potevano mancare le citazioni dei poeti più in auge: Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio; erano loro i "cantautori" del tempo, attraverso cui lasciare messaggi ai posteri. 
I romani, poi, avevano più fantasia di noi e storpiavano i versi a loro piacimento.

E che dire della mitica Smemoranda anni '80?
Non so voi, ma la mia era piena di frasi memorabili: Beatles, Doors, Ghandi, Wilde [non esattamente in ordine alfabetico, ma secondo l'umore del momento]. Da sempre la citazione è un modo di veicolare idea. pensiero, emozione [Sì, lo faceva pure mia mamma secondo me].

Stiamo, quindi, regredendo a una fase adolescenziale? 
Sono le nostre bacheche ridotte a un wall di citazione selvaggia e banale?
No, io non credo: semplicemente il linguaggio visual del web si muove tra il copy-ad promozionale e la necessità d'interazione sociale; il che è uguale al sempiterno quote che nessuno può negare.
"Ue', l'ha detto lui/lei eh; tu sai chi è? Come puoi non approvare?" - Eh certo. 
Peccato accada spesso che non conosciamo bene il personaggio che osiamo citare; e che spesso non è proprio quello corretto per un determinato contesto.
Quotare sì, quindi; ma a caso anche no. Approfondiamo?


Io (ti) quoto
L'italiano proprio non ci piace: pace.
Eppure l'inglese quote - tu guarda un po' - deriva dal latino quotus [quanto? In che numero?] se pur variato dal medievale quotare [segnare con i numeri - riferito alle pagine di un libro].
In italiano la quota è un valore numerico, il cui significato si estende a comprendere molti soggetti diversi: una persona [professionista quotato]; un titolo in borsa; i contributi versati; gli elementi di una lista ben ordinati; le misure di monti, luoghi, edifici più o meno alti.

L'anglosassone quote risale al medievale "segnare le pagine di un libro", dove si annotavano appunti a margine e dove si trovavano le citazioni riportate nelle fonti; per traslazione quotare diventa "riportare una frase dell'autore" - chiunque esso sia. 
Per questo il termine risulta tanto famigliare e spopola sul web: commentare un post con il neologismo "ti quoto", significa appoggiare il pensiero del suo autore - non per forza conosciuto urbi et orbi
Un verbo pragmatico, dunque, che spinge all'azione "mi piace, stellino, ri-condivido". 
Un verbo che si adatta bene alla dimensione scritta; meno a quella parlata. 
Un verbo che "pesa", ma non distingue tra la fonte "comune" e quella accreditata.
Ma che cos'è la citazione? Qual è la sua legislazione? E come si usa in comunicazione?


Legislazione e fonti
Citare significa "riportare in un testo l'espressione di una persona diversa dall'autore". 
Ci devono essere le virgolette prima e dopo; e le fonti originarie solo dopo. 
Possiamo citare tutto: anche un luogo comune, un accenno figurativo, un detto proverbiale.
E possiamo anche variare. Ma com'è regolamentato questo... tutto?

Ovviamente dipende da paese a paese; basti sapere che, mentre negli USA vige il Fair Use, qui in Italia abbiamo una legge sulla "protezione del diritto d'autore" che risale - oh my God - al 1.941.
Una cosa nuova, insomma; adatta a regolamentare il nuovo linguaggio digitale. 
Sia messo agli atti che la SIAE ha preteso compensi sui diritti d'autore anche per l'attività didattica. 
Sì hai capito bene: non c'è limite al peggio. In ogni caso, il Governo ha risposto che la nostra legge del 1.941 può essere equiparata a quella statunitense; e noi siamo contenti: WikiQuote forever; ma pure The Oxford Dictionary of Quotation e The Columbia Dictionary of Quotations
E be', ma ti pare.


La citazione in comunicazione
Perché si cita tanto?
Le ragioni sono più d'una e dipendono dal mezzo; limitandoci al web, direi che quelle principali sono:

  • visive - le parole emergono dalla pagina con una potenza maggiore e attirano gli occhi del lettore: font, disegno, colore spingono il messaggio oltre il muro nero e bianco; impossibile non leggerle, per quanto i nostri occhi scorrano veloci
  • emozionali - la citazione esprime uno stato d'animo di cui ci sentiamo partecipi e in cui vogliamo coinvolgere il lettore: l'importante è rispettare il contesto
  • evocative - la citazione troneggia su foto, immagini, luoghi che immortalano nel tempo un pensiero riflessivo, ma anche "sensitivo" [vista, olfatto, gusto, udito, tatto]
  • partecipative - la citazione esprime a caratteri cubitali un pensiero che condividiamo; usiamo le parole degli altri per far capire meglio chi siamo
  • interattive - le parole condivise a gran voce, quasi urlate nel mare del web, vogliono (in)cantare; per non interagire, bisognerebbe tapparsi occhi e orecchie a livello mentale

Che dire, poi, dei quote-bio [le citazioni nelle bio di Twitter] o dei progetti come twitteratura, dove si citano autori in 140 caratteri sulla base del tema giornaliero?
Insomma, il quote funziona. E quando una cosa funziona, abusarne è molto facile.
Forse bisognerebbe imparare dalle antiche genti romane: per essere originale, bisogna osare.


Personal Branding: quotare "cum sale"
Sai cosa? Io non quoto più la citazione selvaggia: m'ha scucciat'.
Il messaggio polisenso, buttato là senza senso, alimenta la polemica: personaggi storici, di cui manco si conoscono le vite, vengono scagliati sulle bacheche come un sasso nello stagno per aumentare le cerchie. Non approvo per un semplice motivo: sarebbe come prendere un libro, aprirlo a caso, estrapolare una riga dal contesto e lanciarla nel pubblico consesso - che non ha la giusta autorità [con tutto il rispetto]. Penso a quanti autori si strapperebbero i capelli se assistessero a questo processo - mi vengono in mente quelli del povero Einstein che già erano pochetti e ancor meno n'erano rimasti dopo l'abuso in stile Pop-Art.

Mi chiedo, poi, perché l'auto-quote sia out: citare noi stessi è forse un problema? No: sarebbe un ottimo escamotage per fare personal-branding con un sacrosanto pizzico di creatività.
I miei quotes sulla pagina Copywriter Input parlano di me: ironia, variazione sul tema, pensiero. Citazione senza quartiere tra poster e Facebook Cover.
Non è facile e forse è proprio là che sta il problema: tocca pensare a qualcosa di originale; ma anche riuscire a centrare il messaggio in poche, chiare, significative parole.
Scrivere quotes partoriti dal nostro cervellino è un ottimo esercizio riassuntivo: possiamo sfruttare l'ironia, esprimere pensieri sul nostro lavoro, condividere emozioni; e, soprattutto, possiamo distinguerci e risultare originali. Non siamo nessuno, ma i nostri lettori ci devono conoscere; tante volte le citazioni possono nascere proprio con la loro partecipazione. Qualche tempo fa, sempre sulla pagina Facebook, abbiamo creato quotes sulle variazioni latine: eccoli qua.

Ciò non toglie che il quote classico possa risultare comunque vincente; sempre che sia coerente e in linea con la nostra immagine coordinata. Se sono una fashion blogger e cito Audrey Hepburn. per esempio, devo sapere che sto dando un'immagine precisa di me, del mio stile e del mio target: scrivere un post o farsi una foto con la scarpa leopardata potrebbe risultare... destabilizzante.


Teaser su temi, prodotti e personaggi: facciamoli parlare
Il disumano abuso di citazioni si limita all'essere umano. Certo, lui parla... quindi è chiaro.
Ma il mestiere di comunicatore è - prima di tutto - saper creare qualcosa di nuovo.
La mia domanda è: un oggetto si può auto-citare? E il personaggio di un romanzo? O un post che non è ancora stato scritto? Forse sì, se ci muoviamo sul web.

Mi è piaciuto molto il lavoro di Annarita Faggioni con i protagonisti del nuovo libro: una via di mezzo tra storytelling e quote in teaser. Personaggi che si auto-citano e anticipano il loro ruolo nella storia; un espediente per stimolare il lettore e accrescere la sua curiosità. 

Ma se facessimo lo stesso con un prodotto/testimonial
Qui si potrebbe spaziare tra storytelling - nel caso in cui il prodotto sia già presente sul mercato; e teaser - nel caso in cui volessimo lanciarlo in un prossimo futuro.
Insomma, cosa racconterebbe l'anziano Coccolino? E come parlerebbe il nuovo fagottino?

Che dire poi del post-blog? E della social-bio?
Nel primo caso penso a poche righe incisive che colpiscano il lettore dritto al cuore - e prima di scoprire il contenuto. Un estratto visuale in teaser che anticipa il messaggio principale.
O più di uno. Chissà.
Poi ci sono le mini-biografie di social network come Twitter, dove la citazione occupa una parte - o tutti - dei 160 caratteri a disposizione; amiamo descriverci attraverso frasi memorabili. Quest'è. E come i nostri antenati andiamo di variazioni o rettifiche dissacranti barra ironiche.


Brand Identity tra copy-ad e storytelling
La strategia del messaggio visuale non è nuova nella comunicazione pubblicitaria.
Ho già parlato del copy-ad [che a malapena si distingue dal quote].
E sono davvero tanti gli esempi di aziende che citano i loro fondatori per raccontare la loro storia e i loro prodotti: il vantaggio è far capire bene chi siamo, da dove veniamo, quali sono i nostri valori e su quali leve vogliamo puntare in futuro. Ma possiamo anche veicolare le nostre capacità e i nostri servizi con piccoli suggerimenti auto-citati: è quello che fa la Glisco Marketing di Veronica Gentili.

Io stessa sperimenterò a breve la prima soluzione: lavoro in un'azienda che ha venduto carta fino a tre anni fa; e che oggi si trova a cambiare il suo core-business per vendere un prodotto elettronico.
Il problema è ottenere la stessa credibilità; perché no, inizialmente non ce l'hai. Nello stesso tempo, però, hai un vantaggio netto sulla software-house che entra oggi nel settore: conoscere bene il tuo cliente e il modo in cui lavora. Un vantaggio da sfruttare in pieno, facendo capire che non ti sei lanciato sul mercato come uno sciacallo a seguito di una legge ministeriale: tu in quel mercato ci sei sempre stato. Sarà, quindi, il fondatore Mario a parlare attraverso le nostre pagine social; sarà lui a raccontare il valore dell'esperienza su carta e il modo in cui l'abbiamo trasferita sul prodotto digitale.

Ovviamente la comunicazione visuale è solo un tassello di un piano ben studiato e si deve sposare con l'immagine aziendale. Ricordiamoci che i quotes - come la scelta dei colori, dei font e del layout - danno un'idea precisa di noi all'esterno: che le parole siano nostre o di altri, cambiare quell'idea nel tempo sarà molto difficile. Ultimo esempio? Il chiacchierato quotes di Ceres sulla questione Napolitano; a me ha fatto tanto ridere... ma può un brand sbilanciarsi su un'idea politica? In questo caso mi pare in linea con la comunicazione aziendale; e, quindi, sì. Un plauso all'originalità auto-quotata.


Concludendo
Tu quote il quote?
Io sì, quando non è bru(t)to abusato e banale.
In pieno stile latino, il quote si confonde tra citazione autorevole e autoriale, poster pubblicitario e manifesto elettorale, immagine aziendale e stile personale.
Ma l'albero della cuccagna, prima o poi, smetterà di dare frutti: non tiranneggiamo sulla creatività.
Come dice Umberto Eco "siate avari di citazioni".
Facciamogli eco (?) noi comunicatori. E facciamolo per tutti.
Cià, cià.

La creatività conquisterà il mondo (?)

Una tavola rotonda.
Un Capodanno medievale.
Un perfetto sconosciuto - fino a un attimo prima - che dice una frase. 
E tu vai fuori fase.
La testa non è più su quella tavola rotonda medievale.
Lei ripete quelle parole e si chiede: "Saranno vere?"


Iniziamo il primo post del nuovo anno con la pubblicità dell'effervescente Brioschi.
Sarà perché ti auguro 365 giorni effervescenti?
O perché ci sarebbe da digerire un bel po' di alimenti?
Mmm... non proprio.


Continuiamo il post d'inizio anno col gladiatore più famoso degli ultimi tempi: Maximus Decimus Meridius.
Sarà perché ti auguro 365 giorni da leone - che non si arena in ogni dove?
O perché vorresti trascorrere ante-meridiem e post-meridiem di ogni singolo giorno in modo sereno, propositivo e... ingordo? Mmm, nemmeno.

A volte metafore visive effervescenti, luoghi comuni irriverenti e personaggi d'altri tempi s'intrecciano in strani presentimenti. Sempre che tu riesca a seguire i miei - astrusi - ragionamenti.


Capodanno medievale
Quest'anno il capo ce lo siamo sparato medievale.
Già da un po' volevo fare questa esperienza: perché non guardare il futuro con uno sguardo al passato? Negli ossimori c'è tutta l'ossatura della vita [secondo me]. E anche l'ottimismo [forse].
Location perfetta, immersa nella nebbia padana.
Menu da acquolina in bocca.
Personaggi d'altri tempi che accompagnano le portate con musiche medievali e gingillose risate.
Unico neo: i tavoli sono per otto persone; e noi siamo due. Il gira-la-ruota sa un po' di Capodanno partenopeo, dove con la fortuna si gioca. Mi piace sfidare la dea bendata, ma non quando si tratta di esseri bipedi mai visti [umana diffidenza figlia dell'esperienza].

E invece... sono stata fortunata; al mio tavolo tre coppie:

  • lui: lavora con le onotologie googoliane del knowledge graph; lei: lavora con la scuola e organizza corsi pedagogici
  • lui: lavora in banca e tratta con le aziende; lei: sta in Brasile e si vuole trasferire
  • lui: avvocato civilista; lei: cubana con partita IVA e occupazione nel visual merchandising

C'è di che parlare; e il vino - buono - scioglie la lingua a fiumane.
Ovviamente trascorsi pochi minuti ci conosciamo da una vita; tutti.


Discorsi romani
Mi stavo già perdendo nella questione "ontologie e ricerca semantica" quando l'Avv. - che sta per avvocato non per avvoltoio come qualcuno ha commentato - mi cita Cicerone.
Scusate l'allitterazione, ma Cicerone è la citazione [in giudizio?] per antonomasia. Il mio orecchio destro capta il nome; e la mia attenzione saluta il gigante Google per entrare di stra-foro (?) nella questione.

Dico: "Il grande oratore! Principe della retorica! Il faro che illumina ogni giurista degno di questo nome...!" - poi non ricordo gli altri sproloqui, ché a un certo punto parlava l'Amarone.
L'Avv. s'illumina più del candelabro purificatore che ci divide e urla: "Quale onore parlare di Cicerone a una tavola rotonda medievale!"

Non mi avesse mai dato il "la".
Mi è toccato metterlo in guardia sul fatto che Cicerone - ormai anziano - era stato messo nel sacco - o, meglio, la sua testa - dal diciassettenne Augusto: l'unico essere umano che aveva sottovalutato. L'esile, pallido, femmineo Ottaviano l'aveva colpito nel suo tallone d'Achille: l'orgoglio vanesio; e, fingendo di pendere dalle sue labbra come il pregevole lampadario in vetro di Murano che oscillava pericolosamente sul nostro tavolo, l'aveva infine raggirato per scaraventarlo nelle liste di proscrizione. Con lui, la sua testa forata - e appesa sui rostri del foro.
"Quindi attenzione alle false lusighe Avv.: quelle, ancora oggi, sono il vostro tallone d'Achille" - gli dico sorseggiando il bianco. Risata generale.


Pubblicità
Non so come siamo passati alla pubblicità. Anzi sì.
Da Cicerone alle serie televisive americane che massacrano usi, costumi e verità romane è stato un attimo. L'Avv. mi dice che qualche anno prima su Men's style - in effetti si vede che ci tiene al suo aspetto - avevano pubblicizzato una palestra con l'immagine del Gladiatore: un testimonial d'eccezione per energumeni gonfi, bombati e fissati col body-building - in effetti lui, gracilino, gracchia su terzultimo e penultimo aggettivo.

Povero gladiatore: che fine! E, a seguire, le solite riflessioni su marketing, comunicazione, target, status symbol e pubblicità nel grande spazio.
Chi fa questo mestiere è un genio: siamo d'accordo sulla tesi, anche se il limite etico è spesso sfumato [con il bianco dell'antitesi]. Ed è così, in un lampo, che salta fuori l'esempio della creatività per eccellenza: l'effervescente Brioschi e il suo cinghiale nello stomaco - ci mancava il luogo comune medievale per chiudere il cerchio. Sarà che avevamo mangiato tanto.

L'Avv. ride stridendo come un avvoltoio - ma con un becco acuto e buono.
E poi dice: "Chi ha una creatività così può conquistare il mondo".

A questo punto mi perdo nell'oblio e non seguo più.
Avere una creatività così fa conquistare il mondo?


Più creat(t)ivi
Collegando periodo romano e Capodanno partenopeo, mi viene in mente l'eruzione vesuviana del 79 d.c. - sì, devo allontanarmi dal mio Google cerebrale.
Voglio, quindi, citare l'educatrice Sylvia Ashton-Warner, che - al di là del secondo cognome cartonato e premonitore della missione - definisce così il suo ruolo:

Vedo la mente di un bambino come un vulcano con due sfoghi: distruzione e creatività

Il bambino, si sa, è più vicino al momento della creazione: lo diceva anche Picasso.
Ma vero è che per creare bisogna prima distruggere e scomporre: singoli elementi già esistenti si uniscono - trasformandosi - per dar vita a un'idea nuova. Che vi dicevo sulla potenza dell'ossimoro?

Quindi: la creatività può conquistare il mondo?
Forse sì, a costo di saperla valutare, esaltare e... calibrare. Direi piuttosto incanalare, come l'acqua di un fiume nel condotto di un acquedotto.
La creatività nasce spesso dalla crisi: una scelta diversa in un momento storico difficile. Tant'è che non esiste creatività senza invenzione, immaginazione e fantasia. Si sa.

Eppure, sapere di averla e non potersi mettere alla prova... be'... quello non va per niente bene.

Tutti questi pensieri li ho fatti nella mezz'ora prima del BOTTO.
E prima di fare il botto, auguro a questo paese di saper riscoprire i suoi talenti e di dar loro il giusto valore meritocratico: Università private, agenzie pubblicitarie, aziende che operano nel settore del management culturale... sappiate guardare oltre le vostre "conoscenze". Fate rete nel modo giusto.
Augurare una rinascita, non è affare da aùgure romano che prevedeva il futuro nelle viscere della vittima sacrificale: tutti noi vogliamo vivere; e, con il vostro permesso, lavorare.

QUINDI(DI)CI anche tu duemila volte sì a parole come rinascita, cambiamento, speranza.
Più fiumi di creatività per tutti.
E che siano liberi di (s)correre a dovere dentro le viscere italiche e nelle nostre... vene.

Buon Natale tra silenzio e rumore

Il Natale è già di per sé un ossimoro: tradizioni pagane si mescolano a quelle cristiane per creare un'atmosfera... surreale.
Dove qualcuno nasce; e si sa già che deve morire.
Ma il Natale è un ossimoro anche nei termini: il rumore si mescola al silenzio, invitando alla riflessione. E io quest'anno gli auguri te li faccio così: un po' con le parole, un po' con i suoni. Sssh.


Come ogni anno si fa un gran parlare del Natale.
E io mi tappo le orecchie ad alternanza per godermi rumore e silenzio.
Alla fine penso: "Non è che si fa troppo rumore su questo argomento?"

C'è chi sostiene che fare il copywriter non è solo incastrare le parole.
Come dargli torto?
Ma non dimentichiamo che le parole hanno un suono... e tante belle storie.

Le parole non sono certo giocattoli: assolutamente no.
Io quest'anno, però, con le mie amiche parole ho giocato un bel po'. 
L'ho fatto per lanciare un messaggio che suonasse di sorriso.
Quindi ti propongo un post che si divide bene tra s-s-silenzio e r-r-r-umore.
Come il mio umore.

Dunque senti bene.
E leggi a voce alta.
Queste parole tintillano già di per sé:

  • rumore - con tutte quelle "r" che rombano per sgorgare
  • silenzio - con quella "s" e quella "z" che sibilano dentro
  • sorriso - che riassume le prime due, mescolando rumore e sonno interiore

Magico no?
E allora facciamolo questo rumore sorridendo: iniziamo con gli slogan natalizi che ho condiviso sulla pagina Facebook.


Il rumore del sorriso
Il Natale m'ispira: non c'è niente da fare.
Direi ch'è un periodo prolifero e fertile - se non rischiassi di cadere nella blasfemia.
Qualche tempo fa, su questo blog, facevo notare com'è facile scivolare nell'ambiguità; e lo facevo con uno spirito tra il festivo e il festaiolo. Uno spirito vivo.
Come la risata del bambino.
Hai presente, no? Quella che riempie strade, vicoli e palazzi di una magia rara.
Una magia ch'è solo di Natale; sarà perché il bambino CI è anagraficamente più vicino?

Quest'anno, per smorzare la crisi, ho smorzato la candela creativa e ho coniato un po' di slogan.
Eccoli qui:



Niente d'impegnativo: come vedi, il tentativo è strappare quel famoso sorriso.
Ma se leggi bene fra le righe, negli slogan trovi parecchi tipi umani - non sempre di cattolici natali e (forse) manco pagani.

L'anno scorso mi sentivo più romantica; nel frattempo - di questo termine cui tutti aspirano - sono rimaste solo le prime due lettere "ro-". E, guarda caso, sono pure le iniziali del mio nome. 
Vuoi darmi della cinica?
Aspetta un momento: stiamo entrando nel silenzio.


Il silenzio della riflessione
Allora ragioniamoci su io e te.
Chiunque tu sia e in qualsiasi cosa creda, io sto parlando di atmosfera.
Spegni televisione, radio, PC.
E ripeti con me:

  • silenzio
  • soffice
  • soffuso
  • sonno
  • sogno
  • serenità
  • scia
  • stella
  • stupore

Ascolta bene.
S-s-s-civola sulle "s" come s-s-sulla s-s-s-litta.
Soffermati pure. Ripetile.
Inutile cercare di resistere e fare tanto rumore: questo è il momento del silenzio interiore.
Quello - devo dirtelo - proprio ci vuole.


Quindi...
... io - amante delle parole - ti consiglio un Natale di onomatopee soffuse e di silenzio goduto.
Perché la pace ti scivoli dentro come in un sogno nel sonno profondo. Ti concedo solo il rumore di un sorriso sereno che diventa fragore; o di un pianto sommesso alla luce di un cero soffuso.
Quello che ti auguro è serenità interiore che crei stupore; come una stella che lascia una scia per affrontare il nuovo anno e salutare quello che sta andando via.

Poi chi lo sa... giocando, giocando con le parole... sperando, sperando in bauli pieni di regali... potresti scoprire che Bauli non si pronuncia come credi; e metterti alla ricerca di altri nomi e dei loro misteri.